(Il nuovo racconto della montagna)
Il numero di settembre 2015 di Montagne360 si apre con un editoriale di Luca Calzolari che non possiamo non leggere con molta attenzione.
Il titolo del pezzo è Un nuovo storytelling per la montagna? e qui lo riporto integralmente.
Comprendo e condivido la necessità, espressa dall’autore, di giungere
a una nuova comunicazione della montagna, a un nuovo racconto di essa,
che sappia superare l’attuale mania del no limits spettacolarizzato (che Calzolari definisce giustamente una proposta turistica di consumo spicciolo di emozioni altrui) conciliandosi con l’escursionismo consapevole e il viaggio d’emozione.
Condivido la necessità del cambio dell’attuale percezione:
non condivido il “tipo di dimostrazione” che Calzolari ne tenta. Dico
che, per giungere al sospirato QVD (quanto volevasi dimostrare), i
procedimenti logici di Calzolari sono viziati da un consistente “peccato
originale”.
Il nuovo racconto della montagna
Il numero di settembre 2015 di Montagne360 si apre con un editoriale di Luca Calzolari che non possiamo non leggere con molta attenzione.
Il titolo del pezzo è Un nuovo storytelling per la montagna? e qui lo riporto integralmente.
Comprendo e condivido la necessità, espressa dall’autore, di giungere
a una nuova comunicazione della montagna, a un nuovo racconto di essa,
che sappia superare l’attuale mania del no limits spettacolarizzato (che Calzolari definisce giustamente una proposta turistica di consumo spicciolo di emozioni altrui) conciliandosi con l’escursionismo consapevole e il viaggio d’emozione.
Condivido la necessità del cambio dell’attuale percezione:
non condivido il “tipo di dimostrazione” che Calzolari ne tenta. Dico
che, per giungere al sospirato QVD (quanto volevasi dimostrare), i
procedimenti logici di Calzolari sono viziati da un consistente “peccato
originale”.
Su questo blog insisto da tempo contro l’anglicismo
in ogni settore. Ci sono pochi casi in cui i termini inglesi non sono
superflui. Nella maggioranza dei casi sono fuori luogo, ma si sposano
perfettamente con la colonizzazione (sottile ma comunque violenta) dell’uso del linguaggio aziendalistico
(e simili). Adattarsi al linguaggio e alla pratica di quello che io
ritengo un vero e proprio nemico della cultura libertaria
dell’alpinismo, alla fine vuole dire restarne avviluppati, il primo
passo per restarne anche fregati.
Perché la rete sentieristica in questo momento è definita valore teorico di sviluppo? E perché questo valore (teorico o no) deve diventare asset strategico?
Perché teorico? Forse i sentieri non esistono? E per l’asset
strategico: il CAI spinge a che la gente viva emozioni quiete ma
profonde o piuttosto desidera essere proprietario di un bel catalogo di
prodotti e colluso ingenuamente con operatori turistici che sono mossi
dalle più evidenti motivazioni commerciali?
Continua qui
mercoledì 25 novembre 2015
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Quanto monotona sarebbe la faccia della terra senza le montagne.
Immanuel Kant
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